In risposta ad un commento

Che Yoani Sanchez venga pagata (probabilmente, forse, può essere, non si sa..) dalla Cia o da qualunque altra associazione anticastrista americana e non, a me, francamente, non interessa! Il fatto che io abbia pubblicato un breve articolo su questa persona, non vuol dire che io sia dalla sua parte, né che sia una fans sfegatata di questa blogger e del suo agire. Ne ho parlato semplicemente perché è una donna; e qualunque sia la sua posizione in merito al governo di Fidel Castro o in merito ai rapporti con gli Stati Uniti, per me resta sempre una donna audace, sia nell’uno che nell’altro senso. Io qui non sto a giudicare se sia sbagliato o meno quello che fa, non sono io che la devo redarguire, sarà la storia e saranno i suoi stessi connazionali, che comunque in questo momento, non possiamo negarlo, vivono una fase di “transizione” rispetto al resto dell’America latina, che è storica. Ancor più se si pensa, che forse Cuba è uno degli ultimi paesi, magari l’unico, a mantenere un modello socialista. Da questo punto di vista forse mi potrebbe interessare capire, se ciò che dice Yoani Sanchez sia verità o menzogna. Ma per farlo dovrei trasferirmi per qualche tempo sull’isola caraibica e toccare con mano la realtà locale, e non certo da turista. Solo parlando con la gente, percorrendo le strade di Cuba credo che si possano conoscere le verità del popolo. Qualcuno lo ha fatto ed io non sono certo la più titolata ad occuparmi di questioni politiche internazionali. Ma tant’è ! Di certo so una cosa; che qualunque modello inventato dall’uomo è fallace. Mi spiego meglio. Il modello socialista è sicuramente quello che maggiormente promuove la perequazione sociale, tentando un’adeguata distribuzione della ricchezza e garantendo i servizi sociali minimi, specie istruzione e sanità. In questo Cuba non si discosta.

(altro…)

Appunti di viaggio

 

Giorni di pioggia! La variabilità è quella tipica di una città del Nord Europa; l’aria a volte è chiusa, a Berlino, altre volte, persino in piena estate, gli abbassamenti vertiginosi della temperatura ti tagliano il corpo e l’umido penetra negli indumenti. Di chiuso, a Berlino, c’è anche il carattere delle persone. La prima cosa che impari mettendo piede sul territorio tedesco, è il rigore: una merce che i berlinesi vendono a poco prezzo, anzi svendono. Regole di civiltà però, dovremmo sottolineare, che a noi italiani del Sud appaiono troppo rigide. Rigore, ordine e a volte anche qualche norma incomprensibile, come quelle di non poter portare lo zaino su due spalle o the jacket sul braccio oppure sulla borsa a tracolla; così è, sull’isola dei musei berlinesi. Mi sono chiesta: «ma se ci fanno entrare con borse e quant’altro, che senso ha far cambiare posizione agli oggetti che indossiamo?». Lo zaino va “rigorosamente” su una spalla e the jacket “rigorosamente” legato al bacino o al pube, come direbbe una mia amica in vena yoga! E questa è una stranezza. La seconda è ben più grave.

Nell’era della globalizzazione tutto viaggia liberamente, tutto, uomini/donne/bambini/merci/denaro/animali/servizi… si sposta repentinamente utilizzando la lingua del business, che notoriamente è l’english; ebbene in Germania, no! I tedeschi non parlano l’inglese, non lo capiscono, e cosa più scandalosa, non lo utilizzano per le informazioni rivolte ai turisti. Ora, posso comprendere i pregressi storici, che non fanno sperare in una futura simpatia fra Germania e Inghilterra/Usa, ma almeno le didascalie, nei musei, o sulle opere, dovrebbero essere in inglese. Figuriamoci l’italiano! Non sanno nemmeno che esiste.

Dal punto di vista linguistico, il nostro Bel Paese è come se non stesse sulla cartina geografica dell’Europa (c’è l’Europa ? ah… pensavo fosse solo una questione economica…. E infatti culturalmente non c’è: ogni paese si fa i fatti suoi! Ma almeno puoi pagare in euro). Ausgang invece di Exit, ed Eingang invece di Entrata. C’è da rompersi il capo prima di capirlo. Non è una questione di ignoranza per i berlinesi, come per gli italiani che se sanno tre parole d’inglese è già un miracolo; loro proprio non si sforzano ad utilizzarlo a meno che tu non glielo chieda apertamente. In fondo dovremmo prendere esempio….. magari, noi che siamo così americanizzati!!! E questa è la seconda stranezza.  La terza stranezza, un po’ la immaginavo, data la durezza dei trascorsi storici. The german persons are very colds! E l’accoglienza verso i turisti ? Ne vogliamo parlare ? Non mi riferisco ad albergatori, tassisti, commercianti, in quel caso la gentilezza fa parte del lavoro, ma mi riferisco alla gente comune, specie quella di media età. I giovani ? Beh loro si! Ti rispondono. Ma sempre di fretta. O con una bottiglia di Berlin Pilsener fra le mani. Insomma, chiedere un’informazione a Berlino…. It’s very complicated!!! Per loro è tutto “easy”.

Dunque, facciamo i conti. Niente inglese, niente cortesia all’italiana (a parte qualcuno che si è prestato nel sollevamento della mia valigia al fine di riporla nel vano dell’aereo), niente calore umano. I tedeschi stanno per i fatti loro e non ti invogliano come turista. Sarà che io sono una meridionale con tutti i sacramenti, e magari questo modo di essere l’ho percepito più degli altri. Non me ne vogliate. Però non posso negare che Berlino abbia un fascino tutto particolare.

Venite in Germania. Visitate Berlino! Ne vale davvero la pena: è l’ombelico dell’Europa, dove la cultura, l’arte e la mentalità crescono a vista d’occhio; è quasi fisiologico il cambiamento del tessuto sociale. In soli vent’anni, dalla caduta del vergognoso muro, Berlino è come se fosse risorta dalle macerie.

E’ un luogo pieno di contraddizioni. Da una parte il nazionalismo di cui sopra, dall’altra una sfrenata multi etnicità; da una parte il volto classico e superbo, dall’altra l’espressionismo smisurato degli artisti contemporanei, dell’architettura senza barriere. Tutto può trasformarsi in arte; un angolo, la facciata di un palazzo, un anfratto nel verde dei parchi…  Non solo la porta di Brandeburgo o Aleksander Platz o di fronte ai graffiti del Berlin Mauer o estasiati davanti al volto di Nefertiti o persi fra i mercatini delle pulci e le bancarelle degli artisti di strada o comodamente seduti su una panchina a ingozzarvi di currywurst o plagiati dall’odore del pane con i semi di girasole o ancora sospesi sotto la cupola in cristallo del Reichstag o infine, commossi davanti alle croci dei caduti, davanti al mausoleo degli Ebrei, alle foto color seppia di intere famiglie sterminate come piante da estirpare…. Stare sotto il cielo di Berlino è come stare al centro del mondo!  

Vivere da migranti

 

Appartenere ad un mondo “gigante”, tra il qua e il la, tra il dove, il quando, il perché. Tutte domande e visioni che toccano al migrante. Ieri aveva la pelle bianca, di solito italiano, oggi il migrante per eccellenza ha la pelle scura e usa l’Italia come terra di confino, un nuovo mondo che esiste solo nelle figurine dei giocatori di calcio. Ma l’Italia, anche se ha visto arrestare la sua emorragia di uomini e donne, in prevalenza meridionali, nell’arco di un secolo, fra il 1870 e il 1970 circa, non ha finito di disperdere i suoi migliori cervelli per l’intero continente, per il mondo.

Oggi l’emigrazione ha facce diverse, specie quella culturale è fatta di volti giovani e poliglotti; poi ci sono i figli di nessuno, che in genere fanno gli insegnanti, e questi mantengono alto il trend dell’emigrazione interna, ingrossando le file delle attese, alimentando la speranza del ritorno o generando la rassegnazione dell’adeguarsi a quadrati urbani sempre più “cementati”. Niente mare, niente cielo, niente alberi sempreverdi. L’emigrazione è una ferita, uno strappo irrisolto che si perpetua nel tempo, di generazione in generazione, con meno forza e meno coraggio, con tanti titoli in tasca e sempre meno sogni! Ma per Carmine Abate, l’emigrazione può essere anche occasione di ricchezza. L’unica soluzione per fregare la nostalgia, il senso di estraneità che ti prende allo stomaco di fronte a giornate costellate di solitudine. Per non sentirsi mine vaganti, per intrappolare il senso di vuoto, per dare un significato universale alle esperienze vissute, è forse per questo che Carmine Abate ha scritto Vivere per addizione e altri viaggi (Piccola Biblioteca Oscar Mondadori, 153 pag. 9 euro). E’ l’ultimo di una serie del narratore calabrese, ma di origine arbëreshë, cioè italo albanese di seconda generazione. Nato a Carfizzi, in provincia di Crotone, Carmine Abate parte per occupare le cattedre vuote, per supplire ai colleghi in malattia, col suo volto bruno da insegnante ancora non sconfitto dalla brutalità di una gioventù disillusa dalle istituzioni. Quest’ultimo volume uscito nell’aprile scorso, un insieme di racconti che hanno la compattezza del romanzo, ha come centro propulsore la sua vita, per allargarsi poi, a dipanare storie che appartengono a tutti i migranti del mondo. Quasi una poesia interiore, che cerca disperatamente un appiglio in altre culture, e nell’eventuale arricchimento del migrante a contatto col diverso.

(altro…)