In ricordo di Jolanda Gigliotti, in arte Dalida

“Tête d’affiche” è un’espressione francese, che rende molto poco lo spessore della carriera musicale di Dalida. Paragonata più volte a Edith Piaf, per aver contrassegnato maggiormente la musica leggera francese, per aver portato alle stelle la fama già consolidata del celebre Olympia tra gli anni ’60 e i primi anni ‘80, Dalida è stata soprattutto una vedette del music hall. Il suo grande talento fu quello di essersi saputa reinventare ogni volta che il vento delle mode musicali accennava a cambiare. Non una caricatura, come molti incoscienti della sua fama possono pensare, ma una professionista duratura, dalla tecnica e dal metodo atroci, laddove alle operazioni commerciali si affiancava un approfondimento sempre più intenso e personale della musica. Da icona popolare/internazionale a cantante tragica; da simbolo degli emigranti con la sua verve etnica in grado di unire le culture ad interprete infaticabile di testi d’autore con un intenso studio della canzone francese e italiana (anche grazie a Luigi Tenco), fino alla canzone impegnata, ma senza mai abbandonare il tema dell’amore, seppur frivolo. Nemmeno le ragazze “yé – yé” la spaventano, le rockers con la voce da alcolizzate o la disco music che invade gli anni ’80. Dalida è all’altezza di tutto, complice la sua voce da contralto-mezzosoprano caratterizzata da una tessitura di particolare profondità e intensità espressiva. Un dono che nessuno è in grado di imitare. E la sua teatralità intrinseca, quel senso tragico della vita e della morte, che l’accompagna nei suoi spettacoli, vere e proprie opere d’arte cariche di costumi di scena, parrucche, trucco eccessivo, balletti, boys, piume. Tranne che nel periodo “mistico”, quando dopo la tragedia di Tenco cerca di ritrovare se stessa con viaggi spirituali in Nepal. Si presenta sulla scena una Dalida/Madonna, la Santa, con lunghi abiti bianchi, immagini diafane e quelle calde lacrime che scendono nel concludere sulle note di “Ciao, amore ciao”. La canzone diventa per Dalida, fin da subito, il suo unico modo, e il più autentico, per raccontarsi, intrattenendo una storia d’amore eterna col pubblico.

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Eccellenze e civiltà millenarie in Calabria

Si scrive MuSaBa, ma si legge “aMa”: ambiente/Mediterraneo/arte. E’ questo il filo conduttore del progetto di Nik Spatari, sorto a Mammola, in provincia di Reggio Calabria, dalla fine degli anni ’60. Quando lui e la sua compagna, l’artista/gallerista olandese Hiske Maas, si ritrovarono nel 1969 di fronte alla “grancia” certosina (un ex complesso monastico di cui erano rimaste solo le mura risalenti al IV secolo) del X secolo nella Vallata del Torbido, scoprirono di aver trovato la loro dimensione privilegiata.

Arte, natura, archeologia e cultura mediterranea, non chiedevano solo una ristrutturazione architettonica, ma di poter comunicare in modo armonico. E così il progetto prende forma fino a trasformarsi nella Santa Barbara Art Foundation, o  più semplicemente Museo di Santa Barbara, nel cuore della regione più remota dell’Italia: la Calabria, dove la successione di genti e civilizzazioni (Villanoviani, Ausoni, Fenici, Greci, Romani, Svevi, Arabi, Aragonesi), fusi con gli originari abitanti italici, ha lasciato un’impronta artistica e architettonica senza pari. L’isolamento geografico che contraddistingue la Calabria, interrotto solo da uno sviluppo “precario” del trasporto, e non ancora definitivo, ne ha preservato il ricco patrimonio culturale e archeologico, fin dal periodo Neolitico. Se ancora oggi la Calabria rappresenta “l’ultima frontiera invalicabile del continente”, pensate a cosa poteva essere negli anni ’60 e ’70. La contaminazione fra arte antica, ambiente selvaggio e archeologia mediterranea, ha stregato i due artisti girovaghi.  In realtà Nik Spatari, originario proprio di Mammola, aveva conservate intatte nella sua mente, le bellezze aspre del territorio nel quale aveva vissuto da bambino e dove aveva trovato la sua prima fonte di ispirazione artistica. Ma Nik Spatari, autodidatta e talento naturale, privato dell’udito e della parola, si è spinto in lungo e in largo nell’universo artistico, entrando a contatto con la Parigi del primo ‘900. Accanto a Jean Cocteau, Le Courboisier, Picasso, e Max Ernst, che gli rivela la tecnica materica delle fratture terrestri, André Malraux, Sartre, Montale, che scrisse dell’amico, La Cava, Guttuso, Warhol, Rotella, Oliva e altri, Nik Spatari perfeziona la sua indole artistica. Spatari, però, resterà sempre un appassionato, uno spirito eretico, libero da schemi, sempre dedito allo sperimentalismo attraverso un sedimento notevole di memorie, emozioni, stati d’animo, difficilmente classificabili in una sola corrente artistica. Possiamo definirlo sicuramente, “il transumante del post dinamismo”, un artista enigmatico che ritrova se stesso, le sue radici e il suo futuro, laddove vi avevano lasciato lo spirito gli antenati: a Mammola.          (altro…)